Mario Tamponi Zurück
Uomo in coma Saggezza nel silenzio profondo  Il volto ha i lineamenti nitidi di Giotto. È diventato scarno, ma non si è spento del tutto il sorriso naturale di quand’era paffutello e che ora si è irrigidito come scolpito sul marmo. Un ciuffo grigio-argentato si erge sulla fronte rigata come un promontorio tra due tempie profonde; la testa affondata nel cuscino nasconde l’impietosa calvizie francescana. Le folte ciglia e sopracciglia conferiscono la sovranità amena e meditativa di un uomo in pace con se stesso. Le labbra, una volta carnose, si sono assottigliate e come una saracinesca ermetica chiudono una bocca ormai inutile. Le palpebre scendono fino a coprire per sempre le pupille, prima variopinte come l’arcobaleno. Sulla sommità del naso si è insediato un porro spugnoso, su cui a turno le mosche della stanza si stropicciano indisturbate le zampette appiccicose. Dario Conti dimostra l’età che ha. Tre giorni fa ha compiuto mezzo secolo senza che nessuno se ne sia accorto. 	Da quindici mesi giace supino su una brandina di ferro battuto nell’angolo scuro della stanza del nonno. Immobile come una statua. La medicina per bocca del chirurgo che lo ha strappato alla morte ha decretato lo stato di coma irreversibile, e più precisamente “perdita della coscienza, incapacità di reagire agli stimoli, scomparsa dei riflessi superficiali, profondi e viscerali” e tante altre cose meno comprensibili. E così viene nutrito mediante fleboclisi e trattato alla stregua di un vegetale. Stabilizzatosi dopo un mese e mezzo al reparto di rianimazione, l’ospedale lo ha dimesso per liberare la stanza. Dopo una prima sistemazione nello scantinato di casa è stato portato sù per destinare la cameretta agli ospiti e rendere meno fastidiosa la sorveglianza. Anche per non rischiare di dimenticarlo e ritrovarselo un giorno in stato di putrefazione. La stanza del nonno invece è spaziosa. Oltre alla brandina c’è un letto normale a due piazze di noce intagliato. Con la terrazza panoramica sul corso, la strada principale del paese, e un tavolino centrale funge anche da salotto. C’è quindi movimento, anche se nessuno si cura di Dario più del soprammobile di gesso smaltato dai colori impropri che vorrebbe rappresentare un elefante indiano. I familiari diventano premurosi in presenza dell’operatore sociale, del prete o di altri estranei; ma appena questi se ne vanno loro non si preoccupano nemmeno di riaggiustargli il letto, di accendere o spegnere la luce, di aprire o chiudere la finestra. Sono convinti di avere a che fare con un oggetto sempre più oggetto. Nessuno gli rivolge un gesto di affetto, anche quando non costerebbe nulla. L’assistenza è affidata a Lina, la domestica addetta alle mansioni più umili e faticose. Lei lo lava ogni mattina, lo rade ogni due o tre giorni, sostituisce la boccetta del flebo quando si svuota. Col tempo cresce in casa l’impazienza umanitaria. “Una vita così non è degna di essere vissuta”, mormora Denisa, la cognata, che con vaghe allusioni comincia a prospettare l’ipotesi dell’eutanasia. Ovviamente da praticare in forma camuffata per aggirare la legge e il mormorio bigotto della gente. Basterebbe un digiuno forzato o una impercettibile manipolazione del flebo. Per lei Dario non è solo un parassita, ma anche un pachiderma provocatore, che indugia sulla soglia del trapasso per rovinare l’esistenza dei vivi; è anche l’arbitrio sfacciato della morte, che al suo posto si porta via bambini e innocenti. Queste considerazioni sussurrate non passano inosservate nella coscienza del degente, senza comprometterne però l’imperturbabilità. Il suo passato con lo studio di architettura, il successo professionale, i progetti realizzati, il ruolo di guida equilibrata svolto nella famiglia dopo la morte del padre, la giovialità e le numerose amicizie... tutto sembra dimenticato, sepolto nella sua stessa disgrazia.    La coscienza da coma  Dario non è indifferente al mondo degli oggetti e delle persone, che filtra trasfigurato attraverso lo spiraglio residuale sotto le palpebre. Gli occhi sono diventati come un organo metafisico, idoneo a percepire non più la fisicità e i contorni delle cose, ma la loro leggerezza e valenza simbolica. Dal suo angolo di osservazione la visuale è totale. Non abbraccia solo ciò che succede nella stanza; lo specchio del comò gli consente di sbirciare sulla strada. Dal secondo piano non arriva a vederne il selciato, ma la facciata screpolata del palazzo di fronte e uno squarcio di cielo, ora solare, ora attraversato da nuvoloni dalle forme bizzarre, ora coronato di stelle. Registra le voci e gli umori dei passanti; assapora gli odori della campagna vicina secondo l’alternarsi delle stagioni. E come animali attratti da richiami incredibilmente remoti mediante ultrasuoni e misteriosi segnali elettromagnetici, sente il mare lontano. Col suo specchio sfiorato dai gabbiani, col suo flusso e riflusso sulla costa assetata, il mare continua a riconciliarlo col sole, col vento, col fragore di sempre. Nel mare la storia è il sempre. Rapito dal profumo di salmastro Dario si sintonizza con la simbiosi delle rocce con l’acqua e con i milioni di anni che l’han resa possibile.  Come nell’anima del mare anche in Dario il tempo si è appiattito. Per la gente “sana” la cronologia ha un peso. Hanno un senso la successione degli eventi, la differenza tra passato remoto e passato prossimo, fra futuro prossimo e futuro remoto. E nelle varie caselle del tempo in movimento vengono collocati gli eventi della storia e della memoria privata, la speranza dei singoli e le utopie del mondo. Anche l’oblio e la disperazione. Per Dario invece tutto è racchiuso nel presente e la successione è un costrutto razionale. Il passato è premessa logica e il futuro è sequenza logica. Per gli altri il futuro è attesa e speranza; per Dario è una categoria astratta con carica emotiva zero. Un pò come in un film. Mentre negli spettatori ordinari c’è una partecipazione che li porta ad identificarsi emotivamente con questo o quel personaggio, il rapporto di Dario con la vicenda del film è quello degli attori e del regista che la inventano, la manipolano, la confrontano con possibilità alternative. O del critico che la seziona in una miriade di momenti e aspetti per valutarla a freddo. Per questo Dario considera con distacco anche l’irrequietezza della cognata, nonostante il ruolo attivo che pare abbia avuto nella sua stessa disgrazia. Denisa era vedova da un anno e con due minorenni a carico quando con lungimirante strategia di seduzione era riuscita ad indurre Stefano, l’irriducibile scapolo della famiglia, a sposarla. Stefano era stato al gioco soprattutto per far piacere alla madre. E poi il fatto che Denisa avesse già dei figli lo dispensava dalla fatica di farne dei propri. Lei, con i suoi 33 anni, il volto leggermente allungato, il naso leggermente aquilino e gli occhi leggermente a mandorla, riesumava la bellezza di una penelope greca.  Il dramma nascosto Considerando l’apatia di lui e la passionalità di lei, non pochi dubitavano che l’amore della giovane vedova fosse del tutto disinteressato. In effetti il patrimonio dei Conti non è cosa da poco. Pur vivendo una vita relativamente modesta, la famiglia si avvale di una proprietà terriera che si è accumulata nel corso di tre generazioni. Anche se non dà un grande reddito, ha però un valore commerciale considerevole; tra l’altro il nuovo piano regolatore dei due comuni confinanti ne hanno dichiarato fabbricabile una parte per l’insediamento di stabilimenti industriali e di case popolari. Ad impedire che di quella proprietà si sia venduto finora il benchè minimo fazzoletto è stata la madre di Stefano e Dario, zia Antonietta. Per lei ogni frammento ha la sacralità del rapporto vitale con gli antenati, che non è opportuno far rigirare nella tomba. Per Denisa è scontato che quando morirà questa vecchia all’antica, ormai 81enne, gli eredi venderanno per concedersi qualche agio in più. E di soldi ne resteranno ancora parecchi per investirli in borsa, in titoli ed azioni; per garantirsi una rendita in banca senza la preoccupazione di beni da amministrare e di bilanci che talvolta stentano a quadrare. Non sa come la cosa funzioni, ma all’occasione si troverà pure qualche bravo consulente! Gli eredi rimasti praticamente sono soltanto lei con i figli, da quando un solo incidente stradale ha provocato la morte di Stefano e il coma di Dario. Proprio un giorno prima di quella sera fatale a Dario era stato confidato da un “pentito” un agghiacciante piano omicida, fallito, contro Stefano con la complicità di Denisa. Tutto era cominciato con la crisi matrimoniale dei due quando Stefano aveva scoperto la relazione extraconiugale della moglie col medico condotto del paese vicino. Per istinto di compensazione Stefano, che certamente non era un donnaiolo, si era legato con la sorella del sindaco. Anche se questa relazione era più platonica, egli aveva avuto però l’ingenuità di esternare il suo proposito di separazione dei beni e, in prospettiva, di qualcosa di più. Quando la spirale si ingarbuglia, si dimentica talvolta persino chi l’ha innescata. E così Denisa ha cominciato a sentirsi vittima e a disporsi all’irreparabile “per il bene dei figli”. Ovviamente l’irreparabile non era tutta farina del suo sacco. Ad aizzarla ed organizzarla era proprio l’amante, che dei suoi compaesani condivideva i metodi violenti e sbrigativi, l’uso facile della bomba intimidatoria, ora per vendetta, ora anche solo per invidia. Fatto sta che contro Stefano era stato predisposto un agguato in una partita di caccia al cinghiale con tutti gli alibi della casualità. Saltata la caccia per un contrattempo, era saltato anche il piano. A Dario, pur sconvolto dalla rivelazione, costava l’improvvisa trasformazione in giudice o poliziotto; e così si proponeva di verificare la cosa con lei, a quattr’occhi, magari per indurla alla confessione e al pentimento. Il viaggio in campagna dei due fratelli del giorno dopo era stato organizzato dalla stessa Denisa. Si trattava di effettuare sul posto un controllo di bovini da consegnare al macello. Li avrebbe accompagnati in macchina Francesco, chiamato “bovaro” per il suo lavoro di allevatore, noto anche come abile autista. Il seguito Dario lo apprenderà dal racconto dell’incidente sentitito in versioni diverse nel suo stato di coma. L’automobile avrebbe sbandato e si sarebbe schiantata lateralmente contro un albero al margine della strada. Stefano, seduto davanti senza cintura di sicurezza, sarebbe morto sul colpo con la testa fracassata contro il parabrezza; non avrebbe funzionato neppure l’airbag. Dario, violentemente catapultato dal sedile posteriore, sarebbe stato trasportato all’ospedale con una grave lesione della colonna vertebrale e qualche frattura; mentre l’autista ne sarebbe uscito illeso con un solo graffietto. Il “bovaro” avrebbe attribuito lo sbandamento ad una improvvisa crisi di sonno in pieno giorno. A Dario mancano parecchi dettagli, perchè l’unica che potrebbe fornirli è la più reticente. Ogni volta che il discorso cade sulla morte del marito, invece di dare qualche utile informazione, Denisa tira fuori dal taschino un fazzolettone di seta e si abbandona al pianto. “No! Non dovevano ammazzarmelo così!” urla sguaiata, lasciando intendere che siano stati gli alberi gli autori della disgrazia. Da allora ogni mattina, appena suona la campana dell’Avemaria, si affretta in chiesa per la prima messa e la comunione. Resta il dubbio se abbia raccontato tutta la verità almeno al prete sotto segreto di confessione e ne abbia avuto l’assoluzione senza l’obbligo di costituirsi alla polizia o al pretore. Oppure se la devozione sia tutta una messinscena. Oppure se riesca a dosare la messinscena col pentimento. Denisa non tralascia occasione per ripetere che, appena potrà (e lo dice con chiaro riferimento all’eredità come ad una spiacevole fatalità), destinerà parte dei suoi proventi al San Vincenzo, il ricovero degli anziani abbandonati. Nessuno invece parla più della recente lotta tra la vita e la morte di Dario in rianimazione; la vicenda è diventata insignificante. Egli crede di aver fatto l’esperienza del tunnel della morte, simile all’emozione sulle montagne russe o nei corridoi di raggi laser. Ma questa avventura, generalmente avvincente, a lui dice poco. In effetti il suo stato attuale è più vicino all’aldilà di qualunque tunnel figurativo.  Il mondo nella stanza Il fatto di sentirsi abbandonato a sè stesso non lo deprime. Dato che non può comunicare con gli altri, sarebbe insensato non rassegnarsi. Bastano poche cose a trasmettergli la pace necessaria. Non certo i programmi e i cosiddetti spettacoli di intrattenimento della televisione costantemente accesa, che può vedere dalla porta aperta sulla cucina. Per lui anche la tv può essere utile, ma solo per la materia prima che offre all’analisi e alla ricostruzione di fatti più significativi, non certo per la presunzione di chi vi appare e la dipendenza di chi la guarda e la prende troppo sul serio.  Molto più importante è la presenza della madre. Zia Antonietta si occupa del figlio ancor meno degli altri, ma Dario ne sente la vicinanza fisica come una garanzia. È lei che scoraggia in altri ogni tentazione di eutanasia: per scaramanzia più che per ragioni etiche o affettive, che non possono valere per un vegetale. È arzilla e volitiva, anche se il volto e le braccia si appesantiscono di rughe. Pare aumentino di numero ogni volta che riappare. In lei esprimono saggezza. È un piacere sentirla parlare. Quando racconta le sue memorie non usa il discorso indiretto, ma quello teatrale della commedia popolare. Ogni persona rievocata viene rappresentata col suo timbro di voce e i suoi tic, col suo carattere e le sue astuzie. Con lei il passato non è sterile storia di fatti, ma vive nella plasticità e nelle debolezze dei protagonisti. Quando qualcuno si permette di ripetere lo stesso racconto è come se da un libro illustrato in carta patinata si passasse al manoscritto sgualcito di una Olivetti lettera 22. Dario si sente protetto anche dal nonno Tommaso, riprodotto in un quadro scuro con una pesante cornice barocca; troneggia dall’alto della parete sul divano di velluto rosso-amaranto. È in divisa militare rivolto verso un re trasfigurato di casa Savoia, come un mistico in adorazione davanti all’immagine del Sacro Cuore. Bisogna osservarlo controluce per coglierne i particolari attraverso la patina verdastra. Il riferimento storico è la disfatta di Caporetto, dove l’eroe decorato ha donato alla nazione l’orecchio destro, maciullato da una pallottola vagante. Guardandolo è impossibile non sentirvi anche l’intonazione dell’inno di Mameli. Tra gli ospiti assidui l’informatore più puntuale è don Egidio, il parroco. Parla soprattutto dei matrimoni e delle morti recenti, anche se su queste si sa già abbastanza. Ogni funerale si snoda dalla chiesa lungo il corso sotto casa fino al viale dei cipressi. Dario registra la recita delle litanie e del Miserere, il canto stridulo delle dame di San Vincenzo, il singhiozzo dei parenti, i commenti della gente che segue la bara per gioco di società e col piacere di averla scampata. Gli amici e i curiosi che accompagnano il morto all’ultima dimora, l’aldilà non lo sfiorano neppure! Per loro è importante non allentare la stretta delle dita incrociate in forma di scongiuro. Ma in famiglia don Egidio approfondisce i retroscena e le intimità. Egli sa già chi, chiudendo gli occhi, sale sul direttissimo per il paradiso, chi va a nutrire la schiera dei dannati e chi dovrà subire le pene del purgatorio. Per i dannati ritiene superfluo il rito religioso, anche se purtroppo non può negarglielo. Lo può solo per i suicidi, ai quali applica la versione canonica più severa e restrittiva. Lo fa con l’orgoglio di poter giudicare i mortali con i parametri di Dio. 	Il medico si limita ormai a qualche rara visita di cortesia. Ne profitta per impartire qualche istruzione sull’uso del flebo. Ha già fatto tutto ciò che poteva. Anche per lui Dario non è più una persona, e neppure un caso clinico. Più assiduo è invece Tony, il fratello e socio del titolare delle pompe funebri del paese “Autostrada Paradiso”. È un amico di famiglia, anche se si intrattiene a conversare quasi solo con Denisa. Ma è inquietante quando ti squadra. Pare voglia quasi strapparti ad occhio le misure.  Nessuno comprende perchè recentemente gli sia stato conferito il titolo di cavaliere del lavoro. Forse lo ha raccomandato qualche persona influente per ingraziarselo e non incorrere nel malocchio. In effetti non ha mai lavorato sul serio e interpreta l’onorificenza come dispensa dal lavoro anche per il resto della vita. Tony ne è fiero e infila il distintivo nell’occhiello della giacca a doppio petto ogni volta che, uscendo di casa, prevede assembramento di persone. Lo ostenta come testimonianza del suo filo diretto col capo dello stato o col padre eterno. A lavorare è piuttosto il fratello che, alla vigilia di ogni funerale, lo si sente martellare la cassa da morto e la vasca di zinco.  	Quando passano Elvira e Maddalena, sempre assieme e uguali come due gocce d’acqua, è come se venissero a spiare e tenere la situazione sotto controllo. Sono le sorelle gemelle di Denisa. Anche se più giovani di un anno, di lei sembrano la proiezione in un’età molto più avanzata. Invecchiate anzitempo sono rimaste zitelle. La pelle tirata rinsecchisce la faccia, le braccia, il seno, portando via ogni residuo di grazia e rendendo goffo qualsiasi cenno di seduzione. Inutili i gesti affettati e i sorrisi telecomandati, che non scoprono l’anima ma i rozzi artifici del dentista. Appena se ne vanno si riprende a respirare. 	Questo via vai si svolge davanti e accanto a Dario, ma come se egli neppure ci fosse; anche se poi è l’unico a recepire ogni cosa. Profittando dell’assenza degli altri, c’è chi usa quella stanza come luogo discreto di appuntamenti. Denisa vi ha fatto due volte l’amore col medico senza controllarsi nei preliminari erotici, nei rapimenti confidenziali, nei sussulti di piacere. Una volta sul divano persino la domestica ha iniziato alla piena sessualità il giovanissimo Roberto, figlio di Denisa, che della madre condivide la spregiudicatezza e talvolta la supera. Quando può, vi porta l’amichetta di scuola, ma per effusioni più adolescenziali. 	Dario non è indifferente all’eros, in camera o alla televisione, ma lo vive come riflesso delle sue esperienze passate, soprattutto di quelle mancate: di donne affascinanti mai possedute, di desideri mai soddisfatti, di seduzioni interrotte. Ama la vicinanza di certe donne, anche se non lo eccitano più con la loro fisicità. Quando Lina lo lava e, se sola in camera, indugia ad accarezzargli il membro come se fosse un pezzo anatomico separato, un frutto maturo da staccare, Dario non sente sollecitazione sessuale. Perlomeno quella che provoca l’erezione. Prova solo il piacere di sintonizzarsi col suo passato affettivo. Il che ovviamente sfugge a Lina, a cui talvolta è balzata l’idea malsana di tagliargli quella specie di membro per conservarlo imbalsamato o sotto cloroformio. Tanto, chi potrebbe accorgersi della castrazione? O, se scoperta, chi potrebbe fargliene un torto?   Il mondo oltre la stanza  Il gatto, un soriano, è uno dei protagonisti della stanza, forse il più saggio. Sa di chiamarsi Tigre, ma non si lascia ingannare dal suono delle parole. La testolina è straordinariamente simmetrica, gli occhioni sono introspettivi e interrogativi; il grigio striato che si dirama dal muso e lo attraversa fino alla coda gli conferisce una superba eleganza felina. Con Dario ha cercato di instaurare un colloquio; poi, in mancanza di qualsiasi reazione, vi ha rinunciato del tutto. Ora attraversando la stanza evita persino di rivolgergli lo sguardo. Con evidente frustrazione. La sua postazione privilegiata è il davanzale della finestra. Dall’alto ispeziona la strada e i tetti agitando la coda nervosamente. Dario ha imparato a capirne il linguaggio, che è ricco e articolato. Le scodinzolate possono essere a virgola, a punto e virgola, a punto esclamativo o interrogativo. Ci sono le circolari e le ondulatorie; le avvitate e le martellate; e quelle da direttore d’orchestra, che variano secondo la musica. Ogni movimento si differenzia poi secondo la molteplicità dei tempi e dei ritmi. Parla anche il pelo col variare della rigidità e della morbidezza, che dei sentimenti comunica le vibrazioni più sottili. Per non parlare dei guaiti, che si distinguono dai comuni miagolii come il linguaggio affettivo da quello concettuale! Per la gente sono irrilevanti gli interessi e le emozioni del gatto: gli uccelli, i topolini, gli insetti, il dialogo o la dialettica con gli amici e gli avversari. Per Dario invece sono più importanti che per lo stesso gatto; sono segni di relazioni e fenomeni esistenziali e cosmici. Quelli di Tigre gli consentono anche una visione lunga e particolareggiata verso l’esterno. 	Quando Tigre è stanco, si raggomitola al centro del letto matrimoniale e si concede al sonno, ma con gli occhi semichiusi, come quelli di Dario, per selezionare gli stimoli più importanti. Certo, a differenza di Dario, Tigre scatta, corre, azzanna, miagola. Ma lo fa più per necessità che per indole e vocazione. Lo stato privilegiato è la pigra immobilità. Talvolta si intana nell’armadio della biancheria; e allora la vicinanza a Dario sembra totale. Invisibile e dimenticato, protetto dalla solitudine, estraneo alle premure del tempo. Nessuno sa quale sia il tempo di Tigre. Chissà se oltre quello cronologico della sopravvivenza, della caccia vera e di quella giocata, vive anche il tempo di Dario! Dario crede fermamente che così sia. 	Gli aspetti di Tigre finora accennati sono quelli utili per Dario, quelli che consentono l’ampliamento della sua visuale percettiva, la condivisione della sua condizione. Ma ce ne sono tanti altri, come il gioco, il dialogo, la meditazione, che rientrano nell’ambito più contemplativo di Dario e ne toccano la sensibilità latente. Col gatto sa commuoversi, a modo suo, così come quando si perde nell’eco del mare o nella profondità delle stelle. Lo intenerisce anche la nostalgia di Bach o del tango sentito da adolescente sulla spiaggia di notte in compagnia della prima ragazza. Lo coinvolge il ricordo della poesia cosmica della Genesi “In principio Iddio creò il cielo e la terra...”; o del prologo di San Giovanni “In principio era il Verbo...”; dei salmi epici e lirici di Davide. Nessuno si cura di riproporgli qualcosa del genere. Neppure don Egidio, incerto tra le sentenze di Dio e i pettegolezzi del mondo. La commozione di Dario si condensa in qualche lacrima sul volto rigido, che Lina cancella con la carta igienica come secrezione naturale, come il muco o i fili di bava ai lati della bocca. La chiesa di pietra del settecento campeggia sulla piazza in cima al corso. E il campanile accanto che sovrasta ogni cosa è l’ombelico del paese. Le campane ne sono il respiro e la voce. Aprono la giornata con l’Avemaria dell’alba e la chiudono con quella del tramonto. Esaltano le feste solenni, annunciano matrimoni e funerali, accompagnano le processioni. Le processioni chiamano a raccolta la gente e ne diffondono la coralità e la teatralità nel corso, a due passi da Dario: nella Settimana Santa e a Pasqua di Resurrezione, all’Ascensione e all’Assunzione, al Corpus Domini e alla festa patronale... Per quest’ultima la strada si arricchisce di carta colorata, delle bancarelle del torrone e delle marcette della banda musicale in divisa. Col tocco delle ore le campane scandiscono il fluire del giorno per i vivi e della notte anche per i morti. Di giorno i suoni si mescolano con i rumori della vita, di notte diventano nitidi e penetranti. Raggiungono prima i vivi che riposano, poi come eco ondulare si addentrano nel mondo dei morti. E gli antenati si riversano nelle strade e nelle piazze deserte. Ricongiungono il passato col presente, senza angoscia. Nel ricordo e nell’immaginazione il passato entra nel presente con incubi e inquietudine. Gli antenati che ritornano nel paese dei vivi invece vi portano pace. Riproducono coralmente l’universo che Dario vive nella solitudine e nella dimenticanza. Egli li sente vicini prima che si dissolvano come nebbia, perchè Dario, con un piede nell’aldilà, è ancora di questo mondo.  E in questa ambiguità di stato viene colto talvolta da inconsueta lucidità, che sogna di estendere agli altri. Non per uscire dalla sua vegetativa solitudine, ma per onorare la saggezza dell’anticamera della morte. E allora pensa che sia salutare per tutti l’esperienza del coma. Salutare per liberarsi dei miti che governano la vita e la rendono frenetica e ipocrita; salutare per capire quanto la voce della coscienza, impercettibile come la sua presenza nella stanza del nonno, valga più dell’apparire sociale e degli interessi camuffati. Il purgatorio non può essere fuoco e pece bollente, un inferno dantesco arricchito di speranza. Dario sospetta che possa essere piuttosto questa sua esperienza di solitudine, assieme alla capacità di rinunciare al conforto della vendetta o della rivalsa, alla fuga nel ruolo di giustiziere. Egli ha quasi la certezza degli ideatori del complotto non riuscito nella partita di caccia e dei responsabili del riuscito incidente stradale. Se riuscisse a parlare sarebbe fatale per Denisa. Ma non ci prova anche perchè ritiene irrilevanti la colpa e la punizione altrui. In Dario la prova di colpevolezza non è accusa. È solo un teorema logico, che non si compromette con le emozioni.  Mario Tamponi